Editoriale

di Carlo Danelon VF

M’è capitato, qualche giorno fa, di sentire la vita come assottigliarsi su di un fatto noto, fino a coincidere con esso. Ero in una piazza vuota, quando d’un tratto una campana prese a rintoccare. Si direbbe il terreno di De Chirico, ma no: non era quello; né, come presto intuii, era il terreno del mistero. L’attesa: all’improvviso era l’attesa ad aver trionfato; era l’attesa ad aver sommerso, implacabile, ogni cosa. Allora capii su quale fatto, per così dire, s’era d’un tratto adagiata la realtà, in quella piazza, tra il tintinnio regolare di quella campana. Era una scena de Il posto delle fragole di Ingmar Bergman: e un attimo dopo mi resi conto che sarebbe dovuta giungere una carrozza, e dalla carrozza sarebbe dovuta cadere una bara, e nella bara avrei dovuto trovare me stesso. Allora, nel film, il protagonista si sveglia; capisce di aver sognato; inizia, seppur preso dall’inquietudine che vibra in tutta la pellicola, il suo viaggio, che è un viaggio insieme fisico e onirico, un viaggio nella vita. 

Le campane s’arrestano, l’aura surreale del momento svanisce. Non arriva nessuna carrozza. Semmai ora, nella realtà, è la mancanza di quell’atto, sia pure inquietante, a spaventare. E nulla, forse, le sfugge: sicché, davvero, in quella piazza non c’era nulla, e nulla c’era nel mondo. Ma il viaggio? Nel film il protagonista non potrebbe intraprendere il viaggio, senza quell’inquietudine che ne scandisce le tappe e, in un certo senso, lo giustifica. Sotto una nuova luce, più chiara, più forte, più viva, appare ora la radice della nostra paura: nel fatto che, con l’evento inquietante, manchi pure il viaggio. Il viaggio fisico, il viaggio nel sogno e nel ricordo: nel film s’intrecciano sino a confondersi; nella realtà, ce ne rendiamo conto con un tragico, desolato, rassegnato sospiro, mancano. E mancano terribilmente agli studenti. I quali, del resto, non s’arrendono: così, se nulla accade, ecco che nei racconti qualcosa facciamo accadere; se, in questa nebbia, nulla si vede, noi qualcosa cerchiamo di far vedere. Perciò, a fianco alla ricchezza della rubrica “racconti” di questo numero, non si può spiegare l’inconsueta magrezza della rubrica “attualità” se non con questa triste osservazione: che oggi si vive poco con il corpo; che quanto, là fuori, è reale, non sembra né reale né vivo. E non stiamo diventando spiritualisti: soltanto, la scrittura assume oggi più che mai i tratti di un atto di libertà. La mia, la nostra speranza è che la lettura dell’Oblò possa acquistare, oggi, questi stessi tratti. Forse non basterà: e allora sarà sempre necessario, è chiaro, lottare per i nostri diritti, gridando, davanti a una scuola o sulle pagine del giornalino, che serve l’evento, sia pure inquietante, perché abbia luogo il viaggio. E che noi tutti, prima o poi, dobbiamo viaggiare. 

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