Editoriale

di Carlo Danelon 5F

Ho sempre odiato il campanilismo scolastico, fenomeno diffuso e fondato sul pregiudizio. È quindi ovvio che non voglia esaltare tutto ciò di cui finora mi lamentavo per rimpiangerlo meglio. 

In ogni caso oggi, se penso di cambiare dopo cinque anni le mie abitudini, cioè la mia quotidianità, ossia – diciamolo – la mia vita, mi assale uno strano spaesamento. Non accade, invece, se penso di lasciare il liceo: come se lasciare questo luogo di piaceri e dolori in cui ho trascorso una buona parte della mia vita non fosse tanto sorprendente quanto cambiare una routine così a lungo rodata. Se cerco di ricordare la mia vita scolastica di cinque anni fa, i ricordi sbiadiscono, come lontanissimi, mentre assumono quasi l’aura epica delle memorie. Eppure sembra ieri: cos’è accaduto nel frattempo? Tutto e nulla. Ma quando vedo i primini, oggi, vedo come sono cambiato – e son contento che anche loro partecipino all’Oblò, come per la prima volta, cinque anni fa e circa trenta articoli or sono, feci anch’io. Ecco: il giornalino è stato tanto organismo a sé, luogo personale prima che scolastico, da indurmi a riflettere su di un aspetto finora trascurato. Con il Carducci, oggi, lasciamo anche l’Oblò. Perché l’Oblò è il Carducci; anzi, una sua parte cospicua e plurale – a differenza di quanto affermano i detrattori sommari –. Questo mi rende il Carducci più vicino; sbiadiscono, ora, i tratti evanescenti di “entità quinquennale” con cui sembrava aver preso parte alla mia esistenza. La scuola, d’altronde, è stata anzitutto persone; poi, attività come il giornalino; soltanto in ultima istanza, in un immaginario forse un po’ gotico, “istituto”. Complice il fatto che gli ameni muri di via Beroldo hanno ospitato noi 2002 per un tempo relativamente breve, piroettanti come siamo stati tra la lussureggiante sede di Gorla e, in tempo di DaD, la chiaroscurale ambientazione casalinga. 

Non è neppure il caso di proiettare melanconia sul futuro: soltanto, spero che l’Oblò vivrà di forze nuove; spero che si possa chiudere quest’anno, senza ulteriori intoppi, la desolante esperienza della DaD. Soprattutto, spero che l’esperienza degli ultimi due anni non risulti vana: che il disagio avvertito dagli studenti, più palese ed esteso di quanto prima non fosse, mostri con maggiore chiarezza gli antichi problemi della scuola, renda più facile affrontarli.
Tra gli altri, quello di un esame che rischia di tarpare le ali agli studenti per erigere l’auctoritas della cultura impartita sulla preconcetta volgarità di quella ricercata. Non è questa la sede per discuterne estesamente, né io sarei in grado di farlo; ma è certo che ogni riflessione al riguardo debba muovere da questo: dal senso della scuola, spesso avvolto nell’oblio. Forse gli ultimi due anni scolastici hanno aiutato alcuni di noi a prendere coscienza di questa drammatica mancanza.

Perciò mi rivolgo ora ai carducciani del futuro: ricercate il senso primo di ciò che, deforme, sembra ormai soltanto un obbligo; disseppellite questo senso; siate fedeli soltanto a esso; non smettete di celebrarlo.

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